Cosa cambia con l’accordo tra Iran e Arabia Saudita

da: Redazione
17 Marzo 2023

La rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha contribuito a dare al Medio Oriente la forma che abbiamo conosciuto negli ultimi anni. Per limitarci al periodo successivo alle cosiddette Primavere arabe del 2011, Riyad e Teheran, oltre a essere i “campioni” di due mondi diversi dal punto di vista politico, religioso, culturale ed economico, si sono trovate su fronti opposti in Iraq, Siria, Libano e Yemen. Una alleata degli Stati Uniti, l’altra grande nemica di Washington. Una che sottotraccia (ma nemmeno troppo) strizza l’occhio a Israele, l’altra che fa dell’opposizione allo Stato ebraico uno dei suoi principi cardine. Basterebbe questo per cogliere l’importanza del (prossimo) ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita. Eppure non è tutto, perché a rendere storico questo fatto (sì, in questo senso possiamo usare questo aggettivo) è la mediazione della Cina, che per la prima volta ha svolto un ruolo fortemente politico in Medio Oriente. Data la rilevanza dell’evento, e la pioggia di commenti che esso ha generato, il focus attualità di questa settimana è interamente dedicato al disgelo tra le due potenze mediorientali.

 

Le reazioni.

Ufficialmente (ma non manca chi ritiene che dietro le quinte l’irritazione di Washington sia alle stelle) la Casa Bianca ha reagito positivamente alla notizia: «Sosteniamo ogni sforzo per ridurre la tensione nella regione», soprattutto se questo può portare alla fine della guerra in Yemen, ha affermato John Kirby, portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale statunitense. Dello stesso tenore le reazioni dell’Unione Europea, attraverso le parole di Peter Stano, e di diversi attori regionali. Certo più preoccupato Israele, con Netanyahu a dover riconoscere che, seppure altri Paesi della regione percepiscano l’Iran come una minaccia, essi non condividono la strategia di isolamento messa in atto da Tel Aviv. Un funzionario israeliano ha comunque affermato che questo sviluppo non inficia il percorso intrapreso dallo Stato ebraico per giungere alla normalizzazione dei rapporti con Riyad. Dall’altro lato del confine tra Israele e Libano, Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha definito l’accordo tra Iran e Arabia Saudita una «trasformazione positiva», il cui «impatto si sentirà in Libano, Yemen, Siria e nella regione». John Kirby (ed è in buona compagnia) ha però anche messo in dubbio l’efficacia della roadmap annunciata da Iran, Cina e Arabia Saudita: «resta da vedere se gli iraniani onoreranno la loro parte nell’accordo». A pochi giorni di distanza dall’annuncio della distensione tra i due Paesi è arrivata una prima buona notizia: secondo il Wall Street Journal gli iraniani avrebbero deciso di interrompere l’invio clandestino di armi ai ribelli houthi. Tuttavia, anche in questo caso la cautela è d’obbligo: come numerosi addetti ai lavori hanno riferito nel corso degli anni del conflitto in Yemen, il grado di controllo che la Repubblica Islamica esercita sugli houthi non è paragonabile a quello che Teheran vanta nei confronti di Hezbollah in Libano o delle milizie sciite in Iraq. A confermarlo hanno pensato pochi giorni fa gli houthi stessi. Abdulwahab al-Mahbashi, membro del ramo politico del movimento zaidita yemenita, ha detto durante un’intervista sulla tv libanese al-Mayadeen: «l’Arabia Saudita deve sapere che la nostra relazione con l’Iran non è di subordinazione. È una relazione di fratellanza islamica. Si può risolvere la questione dello Yemen solo tramite negoziati tra Sanaa e Riyad». Certo, i negoziati sarebbero più credibili qualora l’Iran smettesse di soffiare sul fuoco.

 

Cosa prevede questo accordo?

Oltre all’impegno a riaprire le rispettive ambasciate nei prossimi due mesi, Arabia Saudita e Iran hanno affermato che rispetteranno la sovranità della controparte e non interferiranno nei reciproci affari interni. Secondo la ricostruzione del Wall Street Journal, l’intesa prevede anche che l’Iran cessi gli attacchi verso l’Arabia Saudita condotti dal territorio yemenita e che i ministri degli Esteri dei due Paesi organizzino nelle prossime settimane un summit per definire ulteriori dettagli. È poi incluso il ripristino dei precedenti accordi in materia di cooperazione e commercio. Viene inoltre stabilito che l’emittente satellitare Iran International, di proprietà di un cittadino anglo-saudita e designata entità terroristica dall’Iran per via della copertura delle manifestazioni contro il regime iniziate nel settembre scorso, attenui il suo carattere anti-Repubblica Islamica. Infine, e forse questa è la cosa più significativa, la Cina si impegna a organizzare un summit tra il Gulf Cooperation Council e l’Iran entro la fine dell’anno.

Molti media occidentali hanno insistito su due aspetti: il primo è la cautela nei confronti di un accordo di cui non sono note le effettive possibilità e modalità di attuazione (ne parla ad esempio il Guardian), mentre il secondo riguarda la Cina e le crescenti difficoltà a cui Pechino andrà incontro ora che il suo ruolo nella regione non è più soltanto economico (ma lo è mai è veramente stato?). Cionondimeno, l’accordo è certamente un indicatore della crescente influenza cinese in Medio Oriente, evidenziata dall’assenza degli Stati Uniti nella negoziazione, come hanno scritto Trita Parsi e Khalid Aljabri su Foreign Affairs. A cosa si deve questo nuovo protagonismo cinese? In parte alle radicali trasformazioni occorse negli ultimi anni. Ne è un esempio il fatto che la Cina ha aumentato il suo peso specifico sia nei confronti di Teheran che di Riyad, essendo la prima destinazione del petrolio esportato da entrambi i Paesi. Inoltre, difficilmente gli Stati Uniti (che tra l’altro ora sono concentrati in particolare sull’Ucraina) potrebbero mediare tra due Paesi che sono rispettivamente un loro alleato storico e il nemico che cercano di contenere  dal 1979: la posizione peggiore possibile per Washington, «non completamente affidabile per uno dei suoi partner, ma decisamente troppo vicino a una delle parti in causa per mantenere qualsiasi pretesa di imparzialità, lasciando un vuoto che la Cina ha iniziato a riempire». Inoltre, l’attivismo cinese è il diretto risultato di alcuni errori «strategici» compiuti dagli Stati Uniti. Lo evidenziano Parsi e Aljabri quando parlano di una «politica controproducente che ha abbinato la pressione sull’Iran alla supplica nei confronti dell’Arabia Saudita» per l’aumento della produzione petrolifera. Sulla stessa lunghezza d’onda il commento di Stephen M. Walt su Foreign Policy, secondo il quale l’accordo «è una sveglia per l’Amministrazione Biden e per l’establishment della politica estera degli Stati Uniti, perché mette in luce gli handicap autoimposti che a lungo hanno paralizzato la politica degli USA in Medio Oriente».

Non si tratta, però, soltanto di questo: la mancata risposta di Donald Trump agli attacchi subiti dall’Arabia Saudita ad Abqaiq nel 2019 ha reso evidente a Mohammed bin Salman che il Regno non disponeva più dell’ombrello securitario incondizionato di Washington. Fintanto che la monarchia poteva contare sulla protezione militare degli Stati Uniti, la diplomazia poteva restare un’opzione secondaria. Quando si è compreso che la garanzia securitaria non era incondizionata, l’approccio diplomatico nei confronti dell’Iran è improvvisamente diventata un’opzione molto più interessante: un classico caso di moral hazard, ha scritto Murtaza Hussein su The Intercept. Washington dovrebbe dunque imparare una lezione da questo accordo: se gli Stati Uniti continuano a «invischiarsi nei conflitti dei propri partner regionali, rendendosi parte del problema anziché della soluzione, lo spazio per le sue manovre diplomatiche diventerà via via più limitato, lasciando il ruolo di peacemaker alla Cina». D’altro canto, spesso e volentieri sono stati proprio gli alleati regionali degli americani a chiedere a Washington di immischiarsi nei loro conflitti e nella gestione della sicurezza.

Quali sono i benefici attesi dagli attori coinvolti in questo accordo?

Molti media, come il Wall Street Journal, hanno scritto che l’Iran intende porre fine all’isolamento diplomatico cui era, suo malgrado, soggetto. Tuttavia, forse, si tratta più che altro di aumentare le opzioni diplomatiche a disposizione di Teheran: del resto, se consideriamo le relazioni dell’Iran con molti Paesi mediorientali, oltre che con la Cina, la Russia e altri Paesi asiatici, possiamo davvero parlare di isolamento? Quello che invece si può sicuramente dire è che nell’accordo con l’Arabia Saudita Teheran fa un significativo balzo in avanti nella qualità delle relazioni che intrattiene con gli altri Paesi del Golfo Persico, specialmente con il peso massimo economico della regione. Questo è tanto più vero se l’intesa porterà a un ulteriore avvicinamento agli Emirati Arabi Uniti (che già l’anno scorso avevano riaperto la loro ambasciata a Teheran). L’annuncio del viaggio ad Abu Dhabi di Ali Shamkhani, segretario del Supremo consiglio per la sicurezza nazionale iraniano, potrebbe far pensare proprio a questo. Nella stessa direzione di una nuova cooperazione economica vanno le dichiarazioni del ministro delle Finanze saudita Mohammed Al-Jadaan, il quale ha prospettato che i sauditi potrebbero rapidamente iniziare a investire i loro capitali in Iran. «Non abbiamo ragioni – ha detto Al-Jadaan – per non investire in Iran, e non abbiamo motivi per non permettere a loro di investire in Arabia Saudita. È nel nostro interesse assicurarci che entrambe le nazioni beneficino delle risorse e dei vantaggi competitivi della controparte». Si tratta di un discorso certamente di là da venire, ma è proprio qui che si innesta un altro possibile motivo di frizione tra Riyad e Washington: come investire e fare affari con l’Iran con le sanzioni americane ancora in vigore?

Sul quotidiano saudita in lingua inglese Arab News si plaude all’iniziativa diplomatica (ovviamente), ma si sottolineano anche i rischi insiti in questa nuova situazione. Lo fa Faisal J. Abbas quando avverte che i membri dei Guardiani della Rivoluzione potrebbero non avere le stesse intenzioni dei funzionari della politica estera iraniana con i quali è stato siglato l’accordo. Il commentatore saudita Ali Shihabi ha espresso invece in maniera efficace sia le opportunità politiche per Riyad, sia il motivo per cui la presenza attiva di Pechino è stata determinante. Generalmente gli accordi con l’Iran «non valgono la carta su cui sono scritti. Ma siccome questo è un patto con la Cina, è un impegno verso la Cina tanto quanto lo è verso l’Arabia Saudita». Perciò, sostiene Shihabi, è una situazione «win-win per noi: o riusciamo a farli comportare bene [gli iraniani] oppure perderanno la faccia» con i cinesi. Cosa che, certamente, l’Iran non intende fare. Inoltre, anche dal punto di vista economico a Riyad non mancano gli incentivi a raggiungere quanto meno una “pace fredda” con il vicino persiano (secondo alcuni, il Financial Times per esempio, non ci si può attendere niente di più). Uno degli aspetti più significativi in questo senso riguarda la necessità di porre fine alla guerra in Yemen che, come ha affermato Alex Vatanka (Middle East Institute), contribuisce ad allontanare gli investitori dall’Arabia Saudita proprio mentre il principe ereditario MbS vuole aprire il Regno e diversificare la sua economia nell’ambito dei progetti di Saudi Vision 2030. L’accordo mediato dalla Cina testimonia inoltre che l’Arabia Saudita «ha scelto di concentrarsi sui propri clienti», di proteggersi nel modo migliore possibile dagli avversari regionali e di abbandonare pericolose iniziative belliche all’estero, ha scritto Karen Young.

Dal punto di vista cinese, invece, l’obiettivo primario è la stabilità della regione.

Lo ha specificato Jonathan Fulton (non resident senior fellow all’Atlantic Council), il quale ha affermato che «la tensione tra i due Paesi minaccia gli interessi» cinesi, mentre Karim Sadjadpour (Carnegie Endowment) ha sottolineato che «in parole povere, la Cina vuole stabilità in Medio Oriente per garantire il flusso libero dell’energia dalla regione. La de-escalation tra le due potenze regionali e i principali produttori di energia è cruciale per questi obiettivi». Inoltre, anche in considerazione del ruolo spropositato che gli Stati Uniti hanno svolto nel mondo post-1945, l’accordo permette alla Cina di mostrarsi come una forza pacificatrice, e questo aumenta le probabilità che anche stretti alleati di Washington guardino sempre più frequentemente verso Pechino.

Analisi di Claudio Fontana – tratto da Fondazione Internazionale Oasis

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