Un paese facile da conquistare ma impossibile da controllare. Le vere ragioni dietro la presa del potere dei talebani in Afghanistan secondo l’ex ministro della Difesa M. Mauro
In questi giorni fioccano i giudizi sulla ventennale presenza occidentale in Afghanistan e sulla sua legittimità, dimenticando che le Nazioni Unite hanno prodotto il mandato dell’operazione Nato, denominata Isaf, già nel dicembre 2001 a sostegno dell’operazione americana Enduring Freedom, conseguente il rifiuto del governo dei talebani di collaborare allo smantellamento della rete di Al Qaeda presente nel paese e responsabile in particolare nella persona di Osama Bin Laden degli attentati in Usa dell’11 settembre 2011.
Oggi tutti si chiedono come è stato possibile perdere il controllo di un territorio conquistato con apparente facilità. Risulta però impossibile capire l’Afghanistan senza comprenderne la geografia. Il parametro più importante è che, a parte il sud–ovest desertico, il Paese è molto montuoso: ci sono montagne praticamente ovunque. Ciò comporta l’esistenza di molti bacini e valli tra le montagne, che consentono di uscire solo da una manciata di gole. Considerata quindi la difficoltà a raggiungere i luoghi più impervi e la presenza di molte etnie spesso in conflitto, riuscire a costruire un sentimento nazionale per uno Stato centrale è quindi un compito di grande difficoltà. Il che porta a un territorio molto più difficile da mantenere che da conquistare. Questo punto è cruciale per capire perché così tante risorse non hanno permesso all’Occidente di sconfiggere i talebani.
Tuttavia, le forze afgane sono lungi dall’essere indegne, come a volte abbiamo letto: durante il conflitto, l’esercito e la polizia afghani hanno perso 27 volte più uomini delle forze americane, e in particolare, hanno perso più uomini quest’anno degli americani in vent’anni. I russi un tempo stimavano che ci sarebbero voluti un milione di militari per tenere il paese, il che rappresenterebbe i tre quarti dell’intero esercito americano attivo oggi. La forza internazionale ha raggiunto al massimo il 15% di quel numero, e non per molto tempo.
Proprio perché realizzare il collegamento tra le varie città e comunità del Paese era fondamentale per mantenere il controllo, e avrebbe inoltre consentito una maggiore mobilità delle truppe, lo sforzo della coalizione internazionale si è concentrato per un po’ sulla costruzione di strade. In particolare, la coalizione ha cercato di ricostruire la “tangenziale” per collegare tutte le principali città del Paese. Doveva costare 1,5 miliardi, è costata il doppio e non è mai stata veramente completata. Soprattutto, non è stata manutenuta e si è rapidamente deteriorata.
Come mai? Perché già nel 2003 lo sforzo bellico americano si è spostato in Iraq, ed è stato quindi necessario ingaggiare mercenari privati per proteggere i costruttori di strade, che costa molto di più che avere i siti protetti dagli eserciti regolari. Un’altra cosa da tenere a mente dell’Afghanistan è che il paese è senza sbocco sul mare, cioè senza accesso a mari e oceani: per invaderlo e rifornirlo, devi entrare da un paese vicino. È quindi opportuno rivedere ancora una volta la geografia della regione, questa volta però osservando non più le montagne del paese, ma i suoi confini. Escludiamo per ovvie ragioni Cina ed Iran. Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan hanno altre controindicazioni ma si sono resi in parte disponibili.
È stato quindi principalmente il Pakistan a fungere da punto di ingresso per le forze internazionali. In particolare dal passo Khyber a est, che concentrava la maggior parte dell’ingresso di risorse internazionali… quando non era chiuso a causa dei combattimenti. Il che porta a un ulteriore problema: il Pakistan è uno Stato sovrano, il che complica le cose quando si tratta di cercare i talebani che si nascondono lì, quando sono stati spinti oltre i confini, in territorio pachistano; che fungeva poi da base di riorganizzazione.
Lo Stato pakistano è stato incaricato di trattare con i talebani quando si trovavano dalla sua parte del confine, ma è molto più facile a dirsi che a farsi. Innanzitutto perché la regione rimane montuosa. Poi, il Pakistan ha una relazione travagliata con i talebani, tanto da essere stato l’ultimo paese a smettere di finanziarli nel 2001. Se questa relazione è oscura, è perché non è ovvio per il Pakistan semplicemente dichiarare i talebani nemici e dedicare tutte le loro forze per sradicarli, per ragioni di politica interna.
Come mai? Perché quando attraversano il confine dall’Afghanistan al Pakistan, i talebani, per lo più pashtun (uno dei gruppi etnolinguistici della regione), si spostano di casa in casa, enfatizzando le contraddizioni della linea Durand, il non–confine voluto dagli inglesi all’inizio del novecento. Dopo il 2001, i talebani sono stati rapidamente sconfitti, per le stesse ragioni che spiegano perché hanno recuperato rapidamente la loro terra negli ultimi mesi: a causa della sua geografia, il paese è molto facile da conquistare ma per l’appunto impossibile da controllare.
E arriviamo al punto in cui eravamo prima, quando George W. Bush, dopo quella facile vittoria, invece di ricostruire, ha reindirizzato le risorse in Iraq nel 2003. Dopo di lui Obama ha rafforzato massicciamente la presenza militare americana nel 2009, ma dopo che Bin Laden è stato ucciso nel maggio 2011, l’opinione pubblica americana non ha più seguito con interesse e gli Stati Uniti hanno ripensato il loro impegno ruotandolo verso il sostegno al governo afghano e interrompendo i combattimenti attivi. La forza internazionale li ha seguiti, determinando la fine della missione Nato detta Isaf.
Già nel 2013, la situazione sembrava inestricabile: in fondo o si investiva cento volte di più di quello che nessun Paese era disposto a fare, oppure si lasciava il Paese, con un rischio significativo che ricadesse nel caos.
La presa del potere da parte dei talebani era inevitabile?
Difficile da dire, e comunque troppo tardi per sperare in un finale alternativo. La Nato prende atto dell’orientamento di Obama, ma nel vertice dei ministri della Difesa di Vilnius nel 2013 le osservazioni degli italiani (l’autore era allora ministro della Difesa, ndr) e degli inglesi sui rischi di una ritirata scomposta soprattutto per la popolazione civile che aveva sperato in un nuovo Afghanistan convincono gli americani a soprassedere ed a tentare l’addestramento di truppe nazionali. Si passa così da Isaf a “Resolute Support”: operazione Nato di mentoring dell’esercito afghano.
Tuttavia, va detto che la fine avvenuta sotto gli occhi del mondo negli ultimi giorni era pienamente pianificata, anche se è andata più veloce di quanto immaginato dagli Stati Uniti. Nel febbraio 2020, infatti, Donald Trump ha firmato, senza il governo afghano, e senza la Nato, un accordo con i talebani, l’accordo di Doha. Questo accordo organizza la protezione degli americani durante la loro partenza e, tacitamente, la riconquista del paese da parte dei talebani. L’accordo libera 5.400 prigionieri talebani in cambio del rilascio di mille soldati afgani e di un cessate il fuoco. Risultato? Non più un singolo attacco contro le forze della coalizione internazionale, ma un’esplosione di attacchi contro le forze afgane: come abbiamo detto, l’esercito afghano ha perso più uomini nell’ultimo anno degli americani dal 2001.
È questo accordo che spiega perché gli occidentali sono oggi relativamente al sicuro a Kabul, mentre i talebani controllano il paese: sanno che se uccidono un americano, rischiano di rovesciare la posizione statunitense e addirittura di veder tornare la cavalleria. I talebani hanno chiaramente compreso il loro interesse a mettere da parte i loro principi per una breve stagione: il momento, tra pochi giorni, in cui l’Occidente e la Cnn se ne andranno, ed il pianeta passerà alla notizia successiva, dimenticando l’ Afghanistan e iniziando a non preoccuparsene.
Questo accordo di Doha è una macchia indelebile non solo nelle relazioni tra statunitensi ed afghani ma ancor di più nelle relazioni tra gli americani ed i loro alleati. Il discorso di Biden alla nazione in cui il presidente ha ignorato Nato ed Europa ribadisce ed esalta questo errore che peserà molto sul nostro futuro. E ciò ci impone di pensare alla svelta ad un reale modello di difesa europea. L’Occidente ovviamente non smette mai di giocare il suo “grande gioco” e già guarda con timore alle ambizioni cinesi, russe ed iraniane sullo scacchiere. Per tornare in Afghanistan, forse più grave di quello che vediamo, c’è quello che non vediamo.
Quale sarà il futuro del Paese, infatti, dopo che sarà stato completamente conquistato dai talebani? Impossibile dirlo. Cosa dovrebbero fare i Paesi occidentali, lasciare che i diritti umani vengano schiacciati dai nuovi padroni del Paese, o piuttosto tornare a intervenire, a rischio di rompere nuovi vasi di Pandora? Nessuna idea da Washington. In Europa, solitaria per ora, la voce di Angela Merkel, che ha ammesso errori e si è assunta responsabilità.
In ogni caso, esiste un dovere morale dei paesi occidentali ed in particolare dell’Italia. Come possiamo pensare che le persone in fuga dai talebani siano il loro braccio armato? Il minimo sarebbe accogliere incondizionatamente tutti gli ausiliari che hanno aiutato le forze italiane in Afghanistan: si tratta di persone che parlano italiano e che hanno salvato vite italiane. Intanto dalle gole del Panshir si leva la voce di Amhad Massoud, figlio del leader tagiko ucciso da Al Qaeda e dai talebani nel 2001 alla vigilia dell’11 settembre. “Non ci arrenderemo mai”. Il “grande gioco” dell’Afghanistan non è ancora finito.
Per questo, se in questo momento è doveroso impegnarci per tamponare la situazione, prodigandoci per costruire un’alleanza internazionale che contenga il dilagare della violenza, che faccia tutto il possibile per salvaguardare le donne e un minimo della loro autonomia riacquisita, che cerchi di mettere in salvo le vite delle cittadine e dei cittadini afghani che hanno creduto nella democrazia e nella libertà e che ora rischiano di venire uccisi o schiacciati; al tempo stesso è indispensabile tracciare già la rotta per cambiare la situazione che mantiene la Ue in questo stato, colpevole, di debolezza. Una debolezza che la rende spettatrice impotente di tragedie e orrori.
Il monito giusto è giunto sabato all’apertura del Meeting di Rimini dal nostro Presidente della Repubblica: “C’è un io, un tu e un noi anche per l’Europa e per le sue responsabilità, contro ogni grettezza, contro mortificanti ottusità miste a ipocrisia – che si manifestano anche in questi giorni – che sono frutto di arroccamenti antistorici e, in realtà, autolesionisti. … Anche da qui nasce l’esigenza di potenziare la sovranità comunitaria che sola può integrare e rendere non illusorie le sovranità nazionali. La sovranità comunitaria è un atto di responsabilità verso i cittadini e di fronte a un mondo globale che ha bisogno della civiltà dell’Europa e del suo ruolo di cooperazione e di pace … Lo consente la riflessione in atto sul futuro dell’Europa. La Conferenza in corso deve essere occasione di ampia visione storica e non di scialba ordinaria gestione del contingente”. Costruire una sovranità comunitaria è l’unico modo per diventare capaci di agire come europei e smettere di lasciare il destino del mondo – e il nostro – nelle mani altrui.
Articolo tratto da: Il Sussidiario