La scorsa settimana i cittadini statunitensi hanno eletto il quarantasettesimo Presidente degli Stati Uniti d’America. La scelta degli elettori è ricaduta sul ben noto -e controverso- candidato del Partito Repubblicano, Donald J. Trump, già presidente dal 2016 al 2020. Per il Partito Democratico, che ha deciso di puntare tutto sulla vice-presidente uscente Kamala Harris, la sconfitta è piuttosto dura e dimostra una notevole difficoltà nel raccogliere consenso tra gli americani. Ma quali sono le cause della vittoria di Trump? Quali saranno gli scenari futuri e che impatto avrà la nuova presidenza al livello globale? Queste le domande che la redazione di Meseuro ha rivolto a Paolo Stohlman, dottorando in Scienze Politiche specializzato in politica statunitense che ha analizzato nel dettaglio tutta la campagna elettorale e il voto finale del 5 novembre.
Quali sono i fattori che hanno contribuito alla vittoria di Donald Trump?
Quanti!
Riporto prima dei dati importanti, che fanno capire la portata della vittoria di Trump:
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In contee di maggioranza ispanica, Trump ha preso +13.3% rispetto al 2020
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In contee con più del 40% di laureati, Trump ha preso +4.5% rispetto al 2020
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+10% tra i 18-29
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+8% della comunità Black
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+6 tra le donne 18-45
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Nella Miami-Dade County, dove nel 2016 la Clinton ha preso +30%, nel 2024 Trump ha vinto +12%
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Uno shift urbano a destra: +12% a Brooklyn, +11% a Chicago, +9% a San Francisco, +12% Boston
La campagna elettorale 2024 era una competizioni non solo tra i due candidati ma anche tra le priorità politiche del popolo americano. Nell’ultime settimane soprattutto, è diventato chiaro che queste elezioni sarebbero state anche un referendum su queste quattro questioni: costo della vita ed immigrazione per la campagna Trump; stato della democrazia ed aborto per la campagna Harris. Alla fine, sembra che il motto di James Carville, “It’s the economy, stupid!” stia in cima il podio. Gli Americani non si sono mai ripresi dal doppio-shock di Covid-19 ed inflazione, che ha solo aggravato una situazione già opprimente di “crisis of affordability”: immense difficoltà per una grande parte della popolazione ad ottenere ciò che è ritenuto una promessa della vita americana: una casa costa +47% rispetto al 2020, gli interessi sui prestiti di media dimensione e sulle carta di credito +40%, ed una spesa normale +28%. In più, quel sentimento palpabile di mobilità sociale che costituisce l’American model, è sembrata sfuggire a tantissimi. Come tutti sappiamo, l’economia USA è in forte crescita e la disoccupazione è bassa, ma la scelta dell’amministrazione Biden di continuare a ripetere questo fatto quando 45% del popolo americano diceva di stare peggio economicamente rispetto al 2019 è stato un danno enorme alla campagna Harris. In più, la trasversalità di un problema come l’inflazione è stato un vantaggio importante. Ci sono americani preoccupati per lo stato della democrazia, americani pro-ucraina, ed americani per i diritti transgender – ma tutti gli americani sentono il peso del costo della vita. Questo gli ha permesso sia di rafforzare la base del partito, cioè bianchi della classe medio-bassa, e di estenderlo al resto della popolazione di questo ceto, senza distinzione di età, etnia, e sempre meno anche di posizione geografica.
Eppure, ciò non spiega, a mio avviso, la straordinaria vittoria di Trump. Infatti, il candidato repubblicano non solo ha superato la soglia dei 270 grandi elettori ma, forse ancora più indicativo, ha preso anche quasi 5 milioni di voti in più rispetto a Kamala Harris. È solo la seconda volta dalla fine delle Guerra Fredda che un repubblicano prende la maggioranza dei voti. Trump ha avuto la stoltezza di presentarsi come il candidato sia del cambiamento sia del ritorno ad un tempo migliore, lasciando all’elettorato una ampia interpretazione delle promesse di un Trump 47. Con una delicatissima ambiguità strategica, Trump è stato contemporaneamente il candidato pro-vita, ma allo stesso tempo l’unico repubblicano percepito come pro-choice; è il difensore della dignità del lavoro artigianale e delle PMI, ma anche il primo tra i bitcoin bro; a favore di maggiore regolamentazioni sui prodotti alimentari e farmaceutici accogliendo la comunità scettica della medicina tradizionale, ma anche il miglior amico di big oil e nucleare; critico dell’amministrazione Biden per la gestione della crisi a Gaza, ma anche amico e sostenitore di Netanyahu. Dall’aborto all’immigrazione alla geopolitica, le promesse erano molte e spesso disconnesse o contraddittorie, ma la narrativa era univoca: una promessa di cambiamento, di miglioramento della condizione di vita ed un distanziamento totale ed unico dallo status quo. Così Trump si è dimostrato capace di accogliere persone di qualsiasi background socioeconomico, etnico e religioso. In zona urbane, suburbane e rurali. La società americana è piena di contraddizioni, e lui le ha abbracciate.
Last but not least, l’ha fatto li dove stavano i voti non reclamati. Utilizzando con furbizia i nuovi media e fonti di informazione eterodossi, Trump è arrivato ad un pubblico non solo ampio ma disconnesso, cioè inarrivabile in qualsiasi altro modo. Da Joe Rogan a Logan Paul, dalle presenze all’UFC alle pubblicità prima, dopo e durante le partite di football, Trump ha capito che la sua base era estendibile e l’ha fatta crescere. La decisione della Harris di stare principalmente sui media tradizionali si è rivelata essere uno delle scelte peggiori di questa campagna. Qui, più che in qualsiasi altro fattore di questa campagna, si è visto come Trump era il candidato del cambiamento, rafforzando l’immagine elitaria ed anti-democratica del partito Democratico.
In che modo la vittoria di Trump cambia le prospettive future del partito repubblicano e del partito democratico in vista delle prossime tornate elettorali?
Con questa vittoria, diventa impossibile interpretare il fenomeno Trump come semplicemente un’anomalia nella lunga storia politica americana. Trump doveva vincere queste elezioni: dopo la vittoria stretta del 2016, in cui ha vinto solo il voto “elettorale” e non popolare, di fatto Trump ha solo perso elezioni. Il 2018, 2020 e 2022 sono state tutte perse dal partito repubblicano che, nonostante la sua devozione totale al presidente emerito, ha iniziato a dubitare sulla strategia Trump (vedi primarie 2024). Ora non più. Dai risultati di martedì, è chiaro che l’effetto Trump funziona non solo tra bianchi già conservatori, ma trasversalmente – una sfida che da decenni il partito repubblicano cerca di scavalcare. Se già prima aveva un’influenza egemonica sul partito, ora il partito è suo. Cosa significherà dal punto di vista delle politiche implementate, non si sa – troppe promesse in campagna elettorale hanno lasciato molta confusione su cosa sarà della governance effettiva del paese. La vera domanda è cosa succede dopo Trump? I candidati più “Trumpiani” hanno perso in stati che lui stesso ha vinto. Kari Lake, candidata repubblicana al senato, non è riuscita a battere il candidato dem in Arizona. Mark Robinson ha perso la corsa per diventare governatore del North Carolina.
Per i democratici invece è un ritorno al 2016, ma ancora più sconfitti. Dopo un’amministrazione legislativamente impressionante ma politicamente deludente, è chiaro che il partito è nettamente scollegato dal volere del popolo americano. Hanno perso non solo perché le loro idee politiche erano meno convincenti (o del tutto assenti), ma soprattutto perché mancano di credibilità. Il partito democratico non può presentarsi contemporaneamente solo come l’anti-Trump, o peggio ancora come l’unica scelta giusta. Necessità di una visione di prosperità e sicurezza nazionale che possa competere con il MAGA. Sicuramente, la soluzione non è fare campagna elettorale con Liz Cheney! Servirà un gran lavoro di “soul-searching” per riscoprire il ragion d’être di un partito che da troppo tempo scommette sul voto scontato di categorie emarginate, dal ceto basso agli ispanici. Ma come ha detto il Sen. Bernie Sanders: “Impareranno qualcosa i grandi interessi finanziari ed i consulenti strapagati che controllano il partito democratico da questa campagna elettorale? Probabilmente no.”
Come ha fatto Trump a vincere tutti gli swing states? Quale era la probabilità che questo avvenisse?
I sondaggi nella settimana prima delle elezioni, in tutti gli swing states, dicevano che i candidati erano essenzialmente ad un stallo: 50%-50%. Se tieni conto del margine di errore dei sondaggi, che è sempre circa del 3%, cioè 3 volte la differenza tra i due candidati, la probabilità che uno dei due avrebbe vinto tutti e sette gli stati swing era del 60% (secondo il modello 538). Nei modelli dell’election forecaster odiato ed amato da tutti, Nate Silver, su 80,000 simulazione, un 20% risultava in uno “sweep”, cioè vittoria in tutti gli swing states, per Trump – mentre il 14% delle volte risultava uno sweep per la Harris. Credo che ci sia riuscito sempre per questioni di trasversalità. Nei giorni prima avevo identificato 7 contee che rappresentavano la composizione demografica e socioeconomica del loro stato swing, ed in tutti e sette i casi quelle contee hanno votato Trump con un margine simile a quello dello stato. Per me questa è indice di questa coalizione pro-Trump ampia che si è creata nel 2024.
Cosa ci possiamo attendere ora per le sorti dei Democratici? Ci sarà una contesa per la leadership del partito e su quali temi?
Ci sarà senza dubbio un periodo di “finger-pointing”, cioè distribuzione delle colpe. Sono numerose e profonde, ed in primis tra tutti c’è il presidente Biden. Con questa sconfitta, Biden si è definitivamente rovinato la legacy – già compromessa – e sarà ricordato almeno nel prossimo futuro come quello che ha reso impossibile una vittoria Dem. Anche Kamala Harris dovrà rispondere a diverse critiche, prima tra queste la scelta di non distanziarsi più di tanto dall’amministrazione Biden, che era ed è clamorosamente impopolare. Per quanto riguarda il futuro, sembra impossibile per un partito che si è concentrato quasi esclusivamente sul messaggio “anti-Trump” svoltare pagina per costruire una vera proposta politica per il paese. Il campo largo interno che si è creato attorno a questo disprezzo per Trump ora si sfalderà, lasciando uno spazio vuoto che deve essere riempito con un nuovo messaggio politico ed una nuova identità, forse più populista, incentrato sui bisogni economici e sociali della middle and lower class. Credo, però, che siano forse meno importanti i contenuti della proposta nuova quanto la creazione di un’identità politica solida – fondata su una visione della società americana che vada oltre l’infinità di scelte ed il relativismo del “you be you”. Immagino che ci sarà un dibattito più ampio sulla necessità di un cambio generazionale, e con questo un rafforzamento delle tendenze più protezioniste del partito democratico.
In molti considerano Trump come portatore di una visione isolazionista. Ma quali saranno davvero gli effetti della sua rielezione sugli equilibri geopolitici globali?
Million dollar question.
Trump ha presentato un approccio alla geopolitica e non tanto posizioni specifiche sui vari fronti geopolitici di oggi. L’uso in campagna elettorale della guerra in Ucraina come esempio cardinale della sovrapresenza degli Stati Uniti nel mondo fa pensare che questa sia la priorità geopolitica dell’amministrazione emergente. Senza dubbio il messaggio politico che la scelta del popolo americano da al resto del mondo è quello di una chiusura in se stessi e generale disinteresse per ciò che accade altrove, a partire dagli alleati europei e del pacifico. dipenderà tutto molto dalla scelta del Segretario di Stato (un Ric Grenell indica forte isolazionismo, mentre Marco Rubio sarebbe più soft) del Consigliere per la sicurezza nazionale, e del Segretario della Difesa. Sarà poi interessante vedere che rapporto avrà con le organizzazioni internazionali, tra cui il IMF e Banca Mondiale, soprattutto in un momento di doppia crisi, in cui gli stati del sud globale si trovano a dover far fronte ai cambiamenti climatici ed al debito sovrano contemporaneamente. Ma soprattutto c’è da aspettarsi una forte ripercussione economica: sia riguardo le scelte di Trump su dazi con Cina e con il resto del mondo, sia riguardo la deportazione di circa 15 milioni di lavoratori-migranti negli USA. La possibilità che queste politiche portino ad un nuovo ciclo inflazionistico negli Stati Uniti è da tempo sottolineato da economisti di diversi paesi e scuole, e le conseguenze sulle altre principali banche centrali, dalla BCE alla Bank of Japan, sarebbe gravemente dannoso. Le certezze sono poche, ma mi pare sicuro che ci aspetta un periodo tumultuoso.
E come potrebbe cambiare il rapporto tra USA e Ue durante il suo secondo mandato?
Nel dibattito europeo, quello di cui si sente parlare è una decisione netta e vocifera da parte di Trump di staccarsi dall’alleanza transatlantica, ed è sicuramente vero: Trump non è grande fan né della NATO né del progetto di integrazione europea. Ma qui è utile precisare che il vero dramma per gli europei non è tanto essere oggetto della retorica aggressiva di Trump, ma di finire completamente dimenticati dal policy-making bubble americano. Quello che si sente nei corridoio del Campidoglio, e qui mi riferisco ad entrambi i partiti, è un disinteresse diffuso da parte della classe politica americana rispetto ciò che succede in Europa, dal punto di vista politico, economico e militare. Per avere voce in capitolo a Washington, l’Europa deve fare un lavoro di “politica di scala”, non si può pensare di interagire come stati singoli con Trump nella speranza di ottenere qualche accordo commerciale in più. Tutto ciò a maggior ragione quando teniamo in considerazione l’attuale situazione politica di diversi paesi UE: dai governi fragili della Spagna e Francia, alle fatiche a formare un governo in Belgio ed ora in Germania.
Sicuramente con la Harris, questa fase di divorzio tra Europa e Stati Uniti sarebbe stato più graduale e meno teso – Trump affretta i tempi e pone con più urgenza la necessità di avere un Unione Europea più dinamica, abile nei finanziamenti e decisa nelle politiche domestiche ed internazionali. Concludo con delle provocazioni: il giorno che Trump ritira sostengo a Kiev, ostacolando fondi e supporto politico, cosa fa l’Europa? Ed il giorno che decide di imporre dazi del 60% o 100% su tutti prodotti cinesi, creando una possibile inondazione di beni cinesi a basso prezzo, come reagisce la Commissione Europea? Trump è un uomo imprevedibile, e se l’UE vuole stare al passo con i tempi serve maggiore agilità e decisione.