Libia, la svolta decisiva?

da: Redazione
24 Marzo 2021

Dopo trattative durate mesi, più precisamente dall’avvio, nel novembre scorso, del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF), la Libia ha un nuovo governo. L’esecutivo, guidato da Abdul Hamid Ddeibah, ha ottenuto la fiducia da parte della Camera dei Rappresentanti riunitasi a Sirte: 132 i voti a favore, un solo contrario. A lui e al Presidente Mohammed Al Manfi, eletto il 6 febbraio scorso dal Libyan Political Dialogue Forum, il compito di guidare il paese verso le prossime elezioni di dicembre, cui Ddeibah si è impegnato a non presentarsi. Il Governo sarà composto da 27 ministri, 6 sottosegretari di stato e 2 vice-primi ministri.

La luce in fondo al tunnel

La notizia della nascita del nuovo esecutivo assume grande rilevanza nel momento in cui si considera che il governo che finora ha guidato il paese, presieduto da Fayez Al Sarraj, non ha mai ottenuto la fiducia da parte della Camera dei Rappresentanti, l’organo legislativo eletto dopo la tornata elettorale del 2014 ed insediatosi nell’est del paese, a Tobruck. Il Parlamento, ricordiamolo, ha sistematicamente negato la fiducia all’esecutivo stanziato a Tripoli dopo la firma degli accordi di Skhirat del dicembre 2015, che di fatti avrebbero limitato il potere e l’autonomia del maresciallo Khalifa Haftar, affidando il comando delle forze armate al Consiglio Presidenziale (art.8).

Da allora, l’ex colonia italiana è di fatti un paese spaccato in due, con due Parlamenti contrapposti tra loro, e ha conosciuto anni di guerra civile, fomentata anche, a partire dal 2019, dalla presenza sul territorio di potenze straniere (ad inizio dicembre l’allora inviata delle Nazioni Unite, Stephanie Williams, aveva parlato di circa 20mila forze straniere e/o mercenari) preoccupate di proteggere i propri interessi.

Un esecutivo “zoppo”?

Nonostante la fiducia ottenuta da parte della Camera dei Rappresentati e nonostante la nascita del nuovo governo sia stata accolta dal plauso di numerose cancellerie internazionali e dalla missione Onu in loco (Unsmil), tante sono ancora le perplessità circa la stabilizzazione del paese.

Anzitutto, vanno considerate le accuse contenute in un’inchiesta dell’Onu secondo cui il nuovo Primo Ministro avrebbe corrotto alcuni esponenti del LPDF al fine di ottenere i voti necessari ad leggerlo. Accuse subito rispedite al mittente da parte del diretto interessato, che durante un’interrogazione parlamentare precedente il voto ha affermato di essere stato vittima di una campagna diffamatoria.

Ciò che però mina maggiormente la credibilità a proposito dell’effettiva capacità del nuovo governo di essere in grado di esercitare autonomamente il proprio potere è la presenza, ben consolidata, di potenze straniere sul territorio libico. Teoricamente, sia turchi che russi avrebbero dovuto ritirarsi a seguito dell’ultimatum previsto per il 23 gennaio nel quadro degli accordi tra le due controparti libiche firmato a Ginevra con il patrocinio dell’Onu, ma nel concreto ciò non è accaduto. Entrambi gli attori sopracitati hanno investito molto nella partita libica, e non hanno alcuna intenzione di chiamarsene fuori proprio ora che hanno conquistato una posizione di rilievo sul territorio.

Ankara, principale sponsor del Governo di Unità Nazionale (GNA) riconosciuto dalle nazioni Unite, ha stretto legami sempre più fitti con l’esecutivo tripolino: nel novembre 2019 le parti hanno firmato un accordo marittimo, mentre nel successivo gennaio 2020 la la Turchia è intervenuta a sostegno di Al Serraj per contrastare l’avanzata del generale Haftar, arrivato a minacciare la periferia di Tripoli.

Da che la Turchia ha messo piede in Libia, l’esercito guidato da Haftar è indietreggiato fino a Sirte. Ad oggi, forze filo turche sono basate principalmente nella base navale e nel porto di Misurata, oltre che nella base aerea di al-Watya. Erdoğan sa che il controllo di una parte della sponda sud del Mediterraneo costituisce un’arma di ricatto nei confronti dell’Europa per quanto riguarda la questione migratoria, e intende usarla a proprio vantaggio.

Sul fronte opposto, anche la Russia ha ignorato la data del 23 gennaio per il ritiro delle truppe; ad oggi, infatti, i circa 2000-3000 mercenari della compagnia Wagner restano trincerati lungo la linea difensiva fortificata di circa 70 chilometri che hanno eretto da Sirte alla base aerea di al-Jufra (presso la quale sono stanziati circa 1200 paramilitari sudanesi), che oggi segna il confine tra il territorio controllato dal GNA e quello controllato dal Libyan National Army (LNA). Per la strategia del Cremlino, è fondamentale controllare delle basi nella regione nordafricana, rappresentando così una spina nel fianco per la NATO, minacciandone il fronte sud.

Un governo variegato

Appare chiaro quindi che Ankara e Mosca si siano stabilite in Libia per rimanervi, e che, dunque, per portare a termine con successo il processo di stabilizzazione interna vada tenuto conto dei desiderata dei numerosi sponsor stranieri (oltre ai già citati, vi sono Egitto, Emirati Arabi Uniti, Francia e, indirettamente, Sudan e Qatar).

A questo riguardo, va ricordato come Ddeibah abbia già dichiarato che l’accordo marittimo con la Turchia del novembre 2019 debba rimanere in vigore. Inoltre, sul dossier libico Ankara e Il Cairo hanno di recente manifestato l’intenzione di ammorbidire le proprie posizioni, dimostrato nei fatti dall’apertura dell’Ambasciata egiziana a Tripoli.

Come evidenziato in precedenza, il nuovo esecutivo non è di dimensioni modeste come auspicato da vari attori istituzionali internazionali, in ragione del fatto di dover bilanciare le fazioni interne e gli attori esterni che hanno un peso nella vicenda. Nonostante il tandem più quotato nelle previsioni pre-votazione, quello composto da Aguila Saleh e Fathi Bashagha, non sia stato scelto dai 75 delegati presenti al LPDF, i due rimangono i principali referenti politici del nuovo governo di unità nazionale (il primo è l’uomo di riferimento dell’Egitto in Libia, il secondo esponente filo-turco del governo di Tripoli). Altra figura chiave potrebbe essere quella di Khaled Tijani Mazen, nuovo ministro degli Interni: originario del Fezzan, regione troppo spesso dimenticata dalle cronache, ma che in realtà svolge un ruolo di estrema importanza in quanto crocevia di numerose tratte migratorie che partono dal Sahel, e uomo con importanti collegamenti in Italia.

L’obiettivo del nuovo esecutivo è quello di traghettare il paese alle elezioni del prossimo 24 dicembre, ma oltre a ciò e alle sfide sul terreno, se ne aggiungono altre di carattere legislativo: la modifica della Carta Costituzionale per ridurre da nove a tre i componenti del Consiglio presidenziale e l’approvazione di nuove norme sulla legge elettorale.

La situazione continua ad essere estremamente precaria, considerando che il paese è dilaniato da una guerra civile che dura ormai da anni, ma si può dire che, da qualche giorno, un barlume di speranza si sia acceso in Libia.

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