Le proteste in Iran: simili a quelle del 1978, diverse nel risultato

da: Redazione
4 Novembre 2022
Dopo quasi due mesi, le proteste e le manifestazioni in Iran scatenate dalla barbara uccisione di Masha Amini non accennano a fermarsi. La giovane donna curda era stata arrestata lo scorso 13 settembre, mentre si trovava a Teheran, con l’accusa di indossare in maniera errata il velo. La ragazza è deceduta in ospedale in condizioni poco chiare dopo esser stata in coma per tre giorni.

La rivoluzione del 1978-1979

Fino al 1978 l’Iran è stato un fidato alleato americano in Medio Oriente. Il regime dello shah Reza Pahlavi garantiva un elevato grado di stabilità nella regione, ma aveva il grosso difetto di non curarsi della popolazione. A partire dal 1963, i miliardi derivanti dalla vendite del petrolio vennero usati per sostenere investimenti economici sbagliati, per acquistare tecnologie e armamenti militari di ultima generazione e per l’arricchimento personale delle élite al potere allora (la cosiddetta Rivoluzione Bianca)[1]. Lo shah è stato dunque costretto all’esilio e al posto della monarchia è stata istituita una Repubblica Presidenziale. Non fu tuttavia una rivoluzione islamica quella del 1978, ma una rivoluzione del popolo contro la repressione, la corruzione e la povertà.

I maggiori sostenitori dei movimenti di protesta furono infatti animati dal desiderio di vedere rispettati i propri diritti, di avere maggiori libertà politiche e di espressione, di vivere in condizioni sociali accettabili. Solo in un secondo momento, cioè a partire dal 1979, la componente islamista guidata dall’Ayatollah Ruhollah Khomeyni prese il sopravvento sulle altre parti[2].

Le proteste del 2022

Quarant’anni dopo, le piazze e le strade di molte città iraniane sono di nuovo piene di persone che protesta e manifestano. La scintilla che ha fatto divampare l’incendio è stata la morte della giovane Masha Amini. Tuttavia, quanto sta accadendo non ha un “semplice” significato religioso, ma rappresenta una critica all’intero sistema di potere. La popolazione non è affatto avversa allo sciismo – il 78% delle persone crede in Dio – religione predominante nel paese dal XVI secolo, ma alla sua strumentalizzazione. La rivoluzione khomeynista ha infatti creato un doppio sistema di potere, uno di tipo razionale-legale – secondo la classificazione weberiana – e uno teocratico, che si esplica nella figura della Guida Suprema e dei Guardiani della Rivoluzione e che è il vero fulcro di potere nel paese.

Le proteste di queste settimane hanno dunque molteplici ragioni d’essere, e hanno delle similitudini con quelle del 1978 soprattutto per quanto riguarda la loro componente sociale. Un parte dei manifestanti è costituita da quella che una volta era la classe media – e benestante – del Paese, di cui i bazaari costituiscono una grossa componente, che ha progressivamente visto ridursi i propri guadagni[3].

L’economia si trova in pessime condizioni, salvata dalle entrate derivanti dalla vendita del petrolio. Gli investimenti stranieri nel paese sono diminuiti a causa delle sanzioni reintrodotte dopo il ritiro degli Stati Uniti dal JCPOA, mentre l’inflazione su base annua è aumentata di circa il 40%, anche a causa della decisione del governo Raisi di porre fine allo special dollar exchange rate, utilizzato per l’importazione di beni di prima necessità, il cui prezzo è inevitabilmente aumentato.

Anche il livello della disoccupazione è alto, soprattutto tra i giovani, altra componente fondamentale della protesta: a differenza dei loro genitori, la Generazione Z non è figlia degli eventi del 1978 e dell’ideologia khomeynista, non ha legami con quegli ideali forgiati attraverso la retorica contro il mondo Occidentale e nella guerra contro l’Iraq degli anni ‘80. È una generazione che ha accesso a Internet e che dunque conosce modelli e stili di vita diversi da quelli imposti dalla teocrazia iraniana. Soprattutto, è una generazione dimenticata, lasciata indietro, risultato del fallimento delle politiche portate avanti negli ultimi 15 anni dal regime: i giovani protestano contro la disoccupazione, chiedendo di poter vivere in condizioni sociali dignitose (tra i 15 e i 24 anni, il tasso di persone che non lavora/studia/si forma si aggira attorno al 77%). Protestano contro la corruzione e l’arricchimento delle élite, in particolar modo militari – pasdaran e bassij –, che occupano le posizioni di potere all’interno del Paese.

L’ultima grande formazione sociale che anima le proteste di questi giorni sono le donne. Le disuguaglianze e i forti disagi economici sopra descritti si fanno più marcati se si analizza la popolazione femminile del paese. Il tasso di disoccupazione è doppio (13%) rispetto a quello maschile, ed esiste inoltre una fortissima disparità di genere a livello occupazionale, con appena una donna su cinque che partecipa all’economia. Tuttavia, ad animare le manifestazioni di questi mesi è soprattutto la contrarietà all’obbligo di indossare l’hijab, simbolo dell’oppressione politica e religiosa che la classe dirigente iraniana mette in atto sin dai primi tempi della nascita della Repubblica Islamica. Simbolo, perché è attraverso questa e altre misure – come il diritto di famiglia – che lo Stato attua un controllo sulla vita delle donne, costrette a vivere in una posizione di subalternità rispetto all’uomo.

La repressione: extrema ratio o modus operandi?

Di fronte alle proteste, il regime non sembra disposto a scendere a compromessi. Così come nel 2009 e nel 2019, anche questa volta non si è esitato ad usare la forza per reprime il malcontento: arresti sommari, così come notizie di forze dell’ordine che sparano sulla folla, stanno caratterizzando anche queste proteste. Controllo e repressione sembrano le uniche armi rimaste all’élite per conservare il proprio potere. Un regime change sembra tuttavia improbabile, a causa, tra le altre cose, dell’elevato livello di securitizzazione che caratterizza la società iraniana. Quanto, però, questo circolo vizioso fatto di proteste e repressione potrà durare, dipenderà anche da fattori esogeni, quali i risultati dell’accordo sul nucleare, dalla guerra in Ucraina – che sta lasciando spazi di manovra sempre maggiori alla Turchia in zone quali il Caucaso e il Vicino Oriente, giardino di casa dell’Iran – e dall’esito delle prossime elezioni in Israele.

[1] Massimo Campanini, Storia del Medio Oriente, Il Mulino, Bologna, 2010, pp.159-160

[2] Riccardo Redaelli, L’Iran contemporaneo, Carocci Editore, Roma, 2011, p.51

[3] Ivi, p.18

 

Articolo di Andrea Meleri – tratto da Istituto Analisi Relazioni Internazionali

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